Ultimo aggiornamento: 9 Marzo 2023

Il pensiero di Giacomo Leopardi è fortemente pessimistico e ha al suo centro il tema dell’infelicità umana. I critici letterari lo dividono in due fasi: il pessimismo storico e il pessimismo cosmico. È possibile ricostruire l’evoluzione di queste due fasi principalmente attraverso gli appunti raccolti nello Zibaldone di pensieri. Il pensiero leopardiano, tuttavia, si riflette anche sulla sua produzione poetica (i Canti) e in prosa (le Operette morali).

Giacomo Leopardi e il pessimismo storico

La prima fase del pensiero di Giacomo Leopardi è detta del pessimismo storico, perché riconduce la causa dell’infelicità al processo storico. Leopardi è convinto che l’uomo sia alla ricerca di un piacere infinito, impossibile da raggiungere, e per questo è infelice. Il piacere a cui l’uomo aspira non ha niente di metafisico o spirituale: Leopardi pensa piuttosto a un piacere materiale, in linea con il sensismo settecentesco. L’uomo può seguire solo piaceri particolari, ma nessuno è in grado di soddisfarlo appieno perché nessuno è infinito. L’infelicità è quindi intrinseca alla stessa costituzione dell’uomo.

Piacere, illusione e natura negli antichi

In questa prima fase Leopardi ha una visione positiva della natura: da madre benigna, ha donato all’uomo l’immaginazione e la fantasia, nelle quali può trovare un rimedio alla propria infelicità. Nell’antichità (cioè nella preistoria e poi presso i greci e i romani) l’uomo era più vicino alla natura e quindi disponeva in massima misura di queste facoltà. Grazie all’immaginazione, gli uomini vivevano nell’illusione ed erano relativamente felici perché ignoravano la loro reale infelicità. Questo consentiva loro di vivere in modo pieno la vita e di lanciarsi in azioni eroiche.

La condizione dell’uomo moderno

Le cose cambiano radicalmente nell’età moderna, perché a causa della civiltà l’uomo ha perso contatto con la natura e quindi è completamente infelice. Il progresso della civiltà ha cancellato le illusioni, l’uomo moderno si è distaccato dalla natura e la sua vita è gretta e meschina. La colpa di tutto ciò è però dell’uomo stesso, che si è allontanato dalla natura. Leopardi ne osservava i risultati nella situazione politica a lui contemporanea, quella della Restaurazione, segnata da inerzia e corruzione. Significativa, in particolare, è l’Italia, che è decaduta dalla sua antica grandezza. In questo contesto spicca la figura del poeta, l’unico depositario delle virtù antiche. Egli, solitario, si erge contro la decadenza dell’età moderna, in un atteggiamento titanico.

Giacomo Leopardi e il pessimismo cosmico

La situazione cambia nella seconda fase del pensiero di Giacomo Leopardi, quella del pessimismo cosmico. In questa nuova fase l’infelicità non è più vista come un prodotto del contesto storico dell’uomo, ma è una condizione assoluta, immutabile ed eterna.

La natura matrigna

La natura è ora vista come una matrigna malvagia e come un meccanismo cieco e crudele, incurante della felicità delle creature. L’unica cosa che le interessi è la conservazione della specie, mentre è incurante della felicità delle singole creature, che possono quindi essere sacrificate per il bene della specie. Questo concetto è evidente in un delle operette morali, il Dialogo della natura e di un Islandese (maggio 1824). All’Islandese che la interroga, la Natura alla fine del dialogo risponde

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? […] Quando io vi offendo… io non me n’avveggo; come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

Operette morali, Dialogo della Natura e di un Islandese

L’infelicità cosmica

La natura è quindi un meccanismo cieco ed è la causa dell’infelicità dell’uomo. Leopardi le attribuisce, poeticamente, gli attributi del fato: è crudele e opera malignamente contro le sue stesse creature. Ma se il pessimismo cosmico è superato, se l’infelicità è cosmica, allora anche gli antichi erano infelici. Il poeta continua però a pensare che i greci e romani fossero comunque meno infelici degli uomini moderni, perché erano portati a dimenticare i loro mali dalla loro vita attiva. Abbandonata anche la figura del poeta titanico, Leopardi si orienta verso l’antico saggio stoico e alla sua atarassia, cioè l’atteggiamento di rassegnazione verso la realtà.

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