Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre 2023

La vita, la società, l’identità sono alcuni dei temi centrali nelle opere di Luigi Pirandello. Il pensiero dello scrittore parte da una concezione vitalistica, per certi versi avvicinabile alle filosofie di Bergson e Simmel.

Luigi Pirandello, il pensiero e il vitalismo

Alla base della pensiero di Luigi Pirandello c’è l’idea che la realtà sia un «perpetuo movimento vitale». La realtà è un flusso continuo, in cui tutte le cose si trasformano e si separano le une dalle altre. Ma ciò che si separa dal flusso si irrigidisce, diventando individuo, e così facendo inizia a morire. Così succede agli uomini, che tendono a staccarsi dalla vita e dal suo fluire per cristallizzarsi in individui, dotati di una propria personalità e identità personali.

Questa identità è però qualcosa di rigido che l’uomo si autoimpone, sforzandosi di essere coerente. Ma la personalità, sostiene Pirandello, è un’illusione che nasce dal fatto che l’uomo osserva il mondo a partire dalla propria soggettività. Nel Fu Mattia Pascal viene evocata la cosiddetta «filosofia del lanternino»: la soggettività è come una lanterna, che proietta un cono di luce in grado di illuminare solo una parte della realtà. In questo modo, ci separa dalla restante parte della vita, che rimane al buio.

L’uomo e le maschere

Tuttavia l’uomo non è solo la propria individualità. Anche gli altri, le persone che ci stanno attorno, ci attribuiscono forme diverse. Ognuno persa di essere uno, coerente con se stesso. In verità, però, ognuno è tanti individui diversi, tanti quante sono le persone che lo guardano. Queste sono delle costruzioni fittizie, che l’autore paragona a maschere che ciascuno di noi indossa perché ci sono imposte dal contesto sociale.

Ma dietro a queste maschere non c’è un individuo definito, ma un costante fluire, in uno stato di perenne mutazione. Sotto questo punto di vista, si potrebbe anche dire che non c’è nessuno. Non a caso, uno dei romanzi più famosi di Pirandello si intitola proprio Uno, nessuno, centomila. Pare inoltre che lo scrittore sia stato ispirato dalle teorie dello psicologo francese Alfred Binet, secondo il quale vi sono più livelli nella vita psichica, consci e inconsci, e che quindi vi sia una pluralità dell’io.

Il pensiero di Luigi Pirandello e la crisi del Novecento

Pirandello è quindi pienamente un intellettuale del Novecento. Caduta l’idea che la realtà sia interamente conoscibile attraverso la ragione in maniera univoca, gli intellettuali guardano ora a essa come a qualcosa che non è oggettivo e che può essere interpretato in vari modi. D’altra parte, anche il soggetto cessa di essere un punto di riferimento per il rapporto con la realtà. Negando l’unità dell’io, che diventa invece plurimo, l’io finisce per sfalsarsi e disgregarsi, smarrito nelle proprie incertezze.

La stessa società novecentesca, d’altra parte, stava attraversando una fase di crisi e di trasformazione. Caratteristica più significativa è la spersonalizzazione, cioè l’annullamento della individualità delle persone, che si verifica a diversi livelli. Il capitalismo e l’industrializzazione da un lato schiacciano i tentativi di iniziativa individuale e dall’altro nega al lavoratore la propria identità, affidandogli compiti anonimi e ripetitivi, trasformandolo in un ingranaggio di una macchina produttiva più grande. Simili effetti si devono alla nascita di mastodontici impianti burocratici statali e alla formazione delle grandi metropoli moderne, che contribuiscono a relegare le persone nell’anonimato. Tramonta così l’ideale classico dell’homo faber fortunae suae.

La vita sociale come carcere

La poetica e il pensiero di Luigi Pirandello hanno la capacità di cogliere questi fenomeni in corso nella società dell’epoca. I personaggi pirandelliani si accorgono della propria inconsistenza, dovuta allo sfaldamento dell’io, e rimangono oppressi da un senso di solitudine e sgomento. Si rendono conto, in altre parole, di essere dei “nessuno”, privi di una propria coerenza e di un’identità definita. Tuttavia, soffrono anche per la coscienza di essere circoscritti in forme imposte dagli altri e dalla società, nelle quali però non si riconoscono. I personaggi pirandelliani finiscono così per guardarsi da fuori: si guardano vivere, arrivando in un certo senso a sdoppiarsi. Da un lato c’è l’io frammentato, dall’altro l’individuo che indossa una maschera e compie azioni quotidiane, considerate però inutili e prive di senso.

Partendo da queste premesse, la vita sociale è vista come un carcere. I rapporti sociali sono dominati dalla crudeltà, che cova al di sotto delle buone maniere imposte dall’educazione. Tutta la società è una costruzione artificiosa, una “pupazzata”, che irrigidisce l’uomo entro degli schemi e lo allontana dalla vita. La situazione dell’uomo moderno è quindi quella di una morte prematura, nonostante all’apparenza sembri continuare a vivere. Da qui scaturisce il bisogno di autenticità e di spontaneità che percorre tutta l’opera di Pirandello. Lo scrittore stesso osserva questa situazione nella sua vita quotidiana: pur adeguandosi alle forme sociali, le vive come costrizioni, che si scontrano con il suo io profondo e anarchico. Insofferente alle maschere che la società impone, Pirandello le irride attraverso la sua ironia.

Le trappole della società borghese

Il pensiero di Luigi Pirandello si scaglia contro la società borghese. Critica anzitutto la società dell’Italia giolittiana e del primo dopoguerra, soffermandosi sia sulla realtà piccolo borghese (soprattutto nelle novelle e nei romanzi) sia quella alto borghese (nelle opere teatrali). La società riserva diverse trappole. La prima è la famiglia, un luogo grigio attraversato da tensioni, odi, rancori, ipocrisie e menzogne. Ma anche il lavoro è una forma che intrappola l’uomo, soprattutto nella medio-piccola borghesia. I protagonisti dei romanzi e delle novelle di Pirandello sono personaggi di bassa estrazione sociale, costretti a fare i conti con la miseria, incastrati in un lavoro frustrante e monotono, oppressi dalla gerarchia.

Pirandello non riconduce la nascita di questa situazione a una evoluzione storica, ma è una condizione esistenziale universale, da cui non ci si può sottrarre. Lo scrittore non immagina quindi una società alternativa, né cerca soluzioni, ma piuttosto si ritira su posizioni ideologiche conservatrici. La sua critica corrosiva si riversa quindi contro una condizione dalla quale non c’è via d’uscita, il suo pessimismo è totale. Al massimo, è possibile fuggire nell’irrazionale: attraverso la fantasia è possibile riparare in un mondo “altro”, nel quale evadere dal grigiore della propria vita quotidiana. Dall’irrazionale alla follia il passo è breve: si pensi al dramma Enrico IV, nel quale la pazzia diventa anzi una forma di protesta contro le convenzioni della società.

Il forestiere della vita

Si fa così strada quello che è il tipico personaggio: il cosiddetto “forestiere della vita”, che ha compreso l’assurdità della vita e ne prende le distanze, isolandosi. Il forestiere però continua a osservare, dall’alto della sua consapevolezza, le altre persone che proseguono con la loro vita. Verso di loro prova pietà e irrisione, perché non si rendono conto di essere imprigionati in una trappola. A questo proposito, il pensiero di Luigi Pirandello parla anche di una “filosofia del lontano”: la realtà va osservata da un’infinita distanza, perché solo in questo modo è possibile raggiungere lo straniamento che consente di riconoscere l’assurdità della vita. Da questa prospettiva si può quindi comprendere anche la scelta di Pirandello per il disimpegno: rifiuta di partecipare alla politica attiva e si dedica piuttosto alla contemplazione della realtà.

Il relativismo nel pensiero di Luigi Pirandello

A una simile concezione della realtà non può che accompagnarsi il relativismo conoscitivo. Se infatti la realtà è un qualcosa di confuso e in continuo divenire, che non può essere fissata in schemi stabili, allora ogni pretesa di sistematizzazione è vana. Il reale è caotico e non c’è una prospettiva privilegiata da cui osservare – anzi, ci sono infinite prospettive, tutte equivalenti. La verità è dunque diversa per ciascuno, in quanto soggettiva, e tra gli uomini non c’è possibilità di comunicazione, poiché ciascuno intende la realtà in modo differente. Cresce così il senso di solitudine: l’individuo si sente un “nessuno”, scopre che tutto è convenzionale e fittizio, che i rapporti sociali sono impossibili.

Molti degli elementi fin qui descritti collocano Pirandello nell’alveo del decadentismo: la crisi della società e dell’individuo, la fine della fiducia positivista nella scienza, la vanità di ogni tentativo di dare una spiegazione organica alla realtà. Lo scrittore siciliano, tuttavia, supera il decadentismo e si pone in una prospettiva propriamente novecentesca. Di fronte alla crisi dell’io, romantici e decadenti avevano vagheggiato la chiusura in se stessi nella propria interiorità. Nel pensiero di Luigi Pirandello, invece, ciò non è possibile, perché l’io è ridotto in frammenti incoerenti e non può più essere il centro del mondo.

L’ironia pirandelliana

Fondamentale nella poetica di Pirandello è l’umorismo. A questa lo scrittore dedica nel 1908 un saggio, intitolato appunto L’umorismo. L’autore sostiene che l’opera d’arte scaturisce dal “libero movimento della vita interiore”. Per quanto riguarda l’opera umoristica, questa nasce da quello che viene chiamato “sentimento del contrario”. Per capire meglio che cosa intende, Pirandello propone il celebre esempio della vecchia imbellettata:

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.

Luigi Pirandello, L’umorismo

L’arte umoristica, in altre parole, si basa su una riflessione che porta a cogliere il carattere molteplice e contraddittorio del reale. Dal ridicolo è possibile cogliere la sofferenza, ma allo stesso tempo il tragico è in grado di svelare il ridicolo. In una realtà multiforme e caotica, tragico e comico non sono mai disgiunti.

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